“Per la Corte di Cassazione il genitore troppo protettivo può essere accusato di maltrattamenti in famiglia”
Essere genitore è una grande gioia, ma allo stesso tempo è un compito molto difficile, soprattutto perché si impara “strada facendo” e si è continuamente e costantemente sotto giudizio dei nostri stessi figli, i quali tante volte non condividono e/o non accettano i consigli che gli vengono dati divenendo ciò motivo di scontri e litigi, a maggior ragione quando i consigli suddetti sono di fatto delle vere e proprie imposizioni: è allora che si comincia a percorrere una linea di confine molto sottile che se caricata eccessivamente rischia di spezzarsi e di trasformare in maltrattamenti quelli che magari un genitore percepisce come meri atteggiamenti protettivi e a fin di bene nell’interesse del proprio bambino.
Ai sensi dell’art. 572 c.p. “Chiunque (…) maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi”.
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato dalla condotta di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un’altra persona che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante (Cfr. Corte di Cassazione penale, sentenza n. 4935/2019, Rv. 274617; Corte di Cassazione penale, sentenza n. 3570/1999, Rv. 213516; Corte di Cassazione penale, sentenza n. 3965/1994 Rv. 199476).
La norma in questione mira però a tutelare la famiglia non solo da comportamenti vessatori e violenti, ma anche a difendere l’incolumità psicofisica delle persone ivi indicate e soprattutto a difendere e a tutelare la loro personalità e il loro benessere all’interno del contesto familiare (Cfr. Corte di Cassazione penale, sentenza n. 37019/2003).
In tale frangente i Giudici di legittimità si sono pertanto chiesti se il comportamento iperprotettivo di un genitore possa dunque integrare gli estremi del predetto reato verso il figlio minore nel momento in cui tali atteggiamenti diventino talmente esagerati e soffocanti da influire negativamente sulla personalità del medesimo.
Con un primo ed unico precedente che risale alla sentenza penale n. 36503 del 23/09/2011, la Corte di Cassazione ha risposto positivamente al quesito sopra posto, ritenendo che il reato sussiste tutte le volte in cui il modo di agire del genitore sconfini nell’eccesso pregiudicando lo sviluppo psicofisico del bambino e a prescindere dal fatto che quest’ultimo abbia percepito o meno tali comportamenti come un maltrattamento o vi abbia acconsentito: nella fattispecie esaminata in concreto si trattava del caso di una madre che, in concorso con il nonno, aveva posto in essere tutta una serie di condotte qualificate in termini di “eccesso di accudienza” consistenti – a titolo esemplificativo – nell’imposizione di atti riservati all’età infantile e nell’esclusione del minore da determinate attività didattiche inerenti la motricità, oltre ad una serie di deprivazioni sociali e psicologiche posto che gli erano stati impediti i rapporti con i coetanei e gli era stato precluso ogni rapporto con il padre stante il perdurare di un contesto conflittuale in atto con la madre, tutti atteggiamenti complessivamente valutati come idonei a ritardare gravemente sia lo sviluppo psicologico e relazionale del minore (con i coetanei e con la figura paterna), sia l’acquisizione di abilità materiali e fisiche anche elementari (come la corretta deambulazione).
Nel 2022 con la sentenza penale n. 34280 la Corte di Cassazione è ritornata nuovamente sull’argomento analizzando il caso di un padre accusato di maltrattamenti verso il figlio minore per essere arrivato addirittura a registrare conversazioni e telefonate del medesimo, a sottoporlo a continue visite mediche anche inutili pur di tenere il più possibile “sotto controllo” la salute del piccolo ed altresì per aver costantemente ostacolato il rapporto del medesimo con la madre ed ex compagna, nonché con la sua famiglia, sottoponendolo inoltre a continui interrogatori per carpire il più possibile informazioni relative agli spostamenti della donna.
Tali condotte ad avviso della Suprema Corte – sebbene rilevanti ai fini della valutazione sul corretto esercizio della responsabilità genitoriale ed alle correlate determinazioni riservate al Giudice civile – “non appaiono però superare la soglia minima di offensività rappresentata dall’inflizione abituale di sofferenze fisiche o psicologiche idonee ad incidere sullo sviluppo del minore ed a lederne l’integrità, che, anche a prescindere dalla soglia di sensibilità della vittima (Cfr. in tal senso Sez. 6, n. 36503 del 23/09/2011), consenta di qualificarle come maltrattamenti”.
In sostanza la Corte di Cassazione – in maniera mi permetto di sottolineare del tutto discutibile – ha ritenuto il caso da ultimo analizzato difforme dal precedente del 2011 e dunque insussistente il reato di maltrattamenti nei confronti del figlio minore, giungendo però allo stesso tempo ad affermare un importante principio di diritto in virtù del quale affinchè si possa ritenere configurato il reato de quo è necessario che le condotte iperprotettive superino una determinata soglia minima di offensività.
Quando si può ritenere superata la predetta soglia? Domanda interessante che però lascia sul campo diversi dubbi in considerazione – come visto – delle diverse interpretazioni e percezioni fornite dai Giudici nell’analizzare i casi concreti sottoposti al loro esame.
Una cosa però è certa: “il troppo stroppia”, pertanto cari genitori essere protettivi è lecito, ma occhio a non esagerare e soprattutto a non “asfissiare” i vostri figli per evitare di incappare – soprattutto in contesti di litigi di coppia! – nella spirale tormentata ed angosciante di denunce e magari di controdenunce.